Il miglio verde – Riflessioni sulla pena di morte

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“Sono stanco capo. […] Sono stanco di tutto il dolore che io sento e ascolto nel mondo ogni giorno. Ce n’è troppo per me, è come avere pezzi di vetro conficcati in testa sempre, continuamente. Lo capisci questo?”


Paul Edgecombe è un agente penitenziario che ha operato per molti anni nel “miglio verde”, il braccio della morte del carcere di Cold Mountain, dove i detenuti trascorrono i loro ultimi giorni in vista della loro esecuzione sulla sedia elettrica.
La monotona vita di Paul cambia all’improvviso, quando un giorno un gigantesco uomo di colore di nome John Coffey giunge nel miglio. L’omone non tarda a suscitare la curiosità degli agenti per il grande contrasto fra la sua mole e la sua bontà: si mostra difatti molto sensibile e timoroso, cosa che porta i suoi supervisori, chi più chi meno, ad interessarsi al motivo della sua carcerazione.Nel frattempo giunge a Cold Mountain un altro uomo, Wild Bill Wharton, pluriomicida e pazzo scatenato nostalgico del Far West. Violento, volgare e estremamente malvagio e irrequieto, è l’esatto opposto di Coffey. Quest’ultimo, seppur grande il doppio e apparentemente ritardato, dimostra di non essere in grado di far male a nessuno, e di nascondere un importante quanto miracoloso dono…
In un continuo ripetersi e confrontarsi fra contrasti fra bene e male e problematiche scelte di carattere etico da compiere dinanzi la morte, nel Miglio Verde si intrecciano molte vite: quelle degli agenti, dal “capo” Edgecombe, uomo che ne ha viste tante, abituato alla morte, affetto da tempo da una lancinante infezione ai genitali, fino a Percy, giovane viziato e raccomandato, valvagio nel profondo, che sbeffeggia i detenuti in continuazione nonostante essi ci vengano proposti in maniera assai più umana di quanto ci si aspetterebbe (sono tutti assassini, ma nel film non ci viene mai direttamente esposto).

Salvate il soldato Ryan: uno scontro fra cinismo e dovere

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(di Luca Colandrea)

Sono trascorsi già sessantasei anni dal 6 giugno 1944, il giorno in cui le forze alleate invasero la Normandia sconfiggendo la fortissima resistenza tedesca. Nell’ambito della cinematografia del dopoguerra si possono trovare numerose pellicole che parlano dell’operazione Overlord; va da se infatti che tale evento abbia affascinato molti registi, pochi dei quali però sono riusciti a cogliere tutte le emozioni di chi visse quei momenti senza sfociare nel paradossale o nel classico war-movie costellato da eroi. Uno dei pochi film in grado di rappresentare al meglio cosa un soldato americano abbia provato in quei giorni di orrore è proprio la pellicola di Spielberg che, a mio parere, merita a pieno tutti gli oscar assegnategli.

Il film si apre nel più classico dei modi: un anziano signore si reca con la sua famiglia a visitare il cimitero militare americano, in Normandia, dove avvenne il tristemente celebre sbarco. Fra migliaia di croci bianche, uguali ma diverse, l’uomo sembra notarne una in particolare. La raggiunge, legge il nome su di essa, si accascia a terra scosso da un sommesso pianto. La telecamera si avvicina ai suoi occhi, mentre il rumore delle onde che si infrangono sulla spiaggia poco distante si fa sempre più forte, riportandoci indietro, in un classico flashback, di quaranta, cinquanta anni, sulle stesse spiagge. Ci vengono proposti dei primi piani dei volti dei soldati, stipati nei loro mezzi da sbarco: vecchi e giovani insieme. Alcuni vomitano, altri accarezzano i loro crocifissi, altri tremano per la paura, altri ancora hanno lo sguardo talmente spento che sembrano già morti ancor prima di sbarcare. Fra di loro ne incontriamo già qualcuno che si salverà, ma non sappiamo ancora chi.

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