(di Luca Colandrea)
Sono trascorsi già sessantasei anni dal 6 giugno 1944, il giorno in cui le forze alleate invasero la Normandia sconfiggendo la fortissima resistenza tedesca. Nell’ambito della cinematografia del dopoguerra si possono trovare numerose pellicole che parlano dell’operazione Overlord; va da se infatti che tale evento abbia affascinato molti registi, pochi dei quali però sono riusciti a cogliere tutte le emozioni di chi visse quei momenti senza sfociare nel paradossale o nel classico war-movie costellato da eroi. Uno dei pochi film in grado di rappresentare al meglio cosa un soldato americano abbia provato in quei giorni di orrore è proprio la pellicola di Spielberg che, a mio parere, merita a pieno tutti gli oscar assegnategli.
Il film si apre nel più classico dei modi: un anziano signore si reca con la sua famiglia a visitare il cimitero militare americano, in Normandia, dove avvenne il tristemente celebre sbarco. Fra migliaia di croci bianche, uguali ma diverse, l’uomo sembra notarne una in particolare. La raggiunge, legge il nome su di essa, si accascia a terra scosso da un sommesso pianto. La telecamera si avvicina ai suoi occhi, mentre il rumore delle onde che si infrangono sulla spiaggia poco distante si fa sempre più forte, riportandoci indietro, in un classico flashback, di quaranta, cinquanta anni, sulle stesse spiagge. Ci vengono proposti dei primi piani dei volti dei soldati, stipati nei loro mezzi da sbarco: vecchi e giovani insieme. Alcuni vomitano, altri accarezzano i loro crocifissi, altri tremano per la paura, altri ancora hanno lo sguardo talmente spento che sembrano già morti ancor prima di sbarcare. Fra di loro ne incontriamo già qualcuno che si salverà, ma non sappiamo ancora chi.
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