FULL METAL JACKET

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Quando gli americani iniziarono a partecipare a una delle più discusse guerre di tutti i tempi, quella in Vietnam negli anni ’60, il mondo politico e non si spacco in due: da una parte chi era favorevole a un intervento armato, dall’altra i contrari. Tale spaccatura si ripercosse altresì in ambito cinematografico, pertanto si inizio a parlare della guerra in Asia soltanto nella prima metà degli anni ’70, con film che divennero poi dei veri capolavori, quali Apocalypse Now, Platoon, Il Cacciatore, e il nostro Full Metal Jacket.

Come la maggior parte delle altre pellicole di genere del suddetto periodo, anche nel film di Kubrik il vero conflitto è quello interiore, quello che prende parte cioè nella psiche del soldato, e le vere atrocità avvengono ben prima di entrare in battaglia, bensì già dall’addestramento. Chi di voi non conosce il sergente Hartman e i suoi famigerati discorsi al vetriolo, con i quali terrorizza e massacra le povere reclute dei marines? Non a caso la scena iniziale è proprio quella del taglio a zero dei capelli, ciò proprio a simboleggiare quanto sia influente la manipolazione psicologica a discapito dei poveri soldati.
La metafora di base, almeno nella parte iniziale, è proprio questa: la manipolazione, la trasformazione della persona in una macchina, un soldato che non è più un essere umano ma un oggetto, una grottesca evoluzione del loro unico compagno: il fucile. E questo comporta solo due cose, o la fine che fa il soldato palla di lardo, incapace di accettare sé stesso e pertanto si uccide, o quella di non essere più in grado di tornare alla vita normale, a essere una persona qualunque che voglia metter su famiglia ma a destinata a desiderare la guerra in ogni sua forma e circostanza.

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