Perché dobbiamo per forza lavorare, per vivere?

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Questa domanda può sembrare piuttosto ovvia. Molti diranno che non c’è altro modo, se vuoi vivere devi lavorare. E’ una delle basi su cui si fonda la vita moderna. Ma quella che viviamo adesso è una rivoluzione dei tempi lavorativi e necessariamente umani. Sei ore; molto probabilmente, anche di meno. Questo è il tempo che quotidianamente dedichiamo alla “nostra vita”. Se alle 24 ore togliamo le 8 ore che normalmente dovrebbero essere dedicate al sonno e sottratte le ore assorbite dal nostro lavoro (altre 8 ore, alle quali si devono sommare i tempi necessari agli spostamenti da e per il luogo di lavoro: un altro paio d’ore di media) restano, per l’appunto, le famose 6 ore di vita “vissuta”. Le 6 ore di vita “vissuta”, quindi, sono destinate ad assottigliarsi ulteriormente e ci si trova di fronte ad un bivio: vale davvero la pena vivere solamente per lavorare, o, invece, si dovrebbe lavorare (q.b., come nelle ricette di cucina) per vivere bene? Alla domanda “chi sei?” la maggior parte delle persone risponde mettendo, al primo posto, la propria professione. La maggior parte del nostro tempo infatti, lo passiamo lavorando: per molti lavoratori non c’è tempo per fare altro. Non facciamo più un lavoro, noi siamo un lavoro. Prendiamo parte alla vita solo con il nostro lavoro, e tutto quello che facciamo è collegato al nostro lavoro. E se la cava bene chi fa il mestiere che gli si addice, chi fa il mestiere che ha scelto, quello che ama. Per gli altri? Ma non finisce qui. Arriviamo a scoprire, infatti, che Pavese, con la sua raccolta di poesie “Lavorare stanca”, era stato piuttosto profetico. Da un recente studio pubblicato sull’American Journal of Epidemiology dai ricercatori dell’Institute of Occupational Health di Helsinki emerge chiaramente che trascorrere molte ore a lavoro produce effetti negativi sulle performance cognitive delle persone di mezza età. Nel corso dei test a cui sono stati sottoposti dai ricercatori, i soggetti che svolgevano più ore di lavoro evidenziavano minori capacità di ragionamento, di analisi logica e una ricchezza lessicale inferiore rispetto a coloro che lavoravano meno ore. Secondo i ricercatori lo studio ha evidenziato la correlazione esistente tra un`eccessiva quantità di lavoro – dovuta a orari prolungati o straordinari piuttosto frequenti – e un declino delle capacità cognitive nei lavoratori di mezz`età. Dunque lavorare troppo e per troppo tempo può nuocere al cervello. Il lavoro, se da un lato nobilita l’uomo come tiene a sottolineare qualcuno, dall’altro lato, se in eccesso, arriva a debilitare cognitivamente gli “stakanovisti” della seconda età. La “missione dell’efficienza” finisce per compromettere l’esistenza extralavorativa, le amicizie, gli affetti, il tempo libero: la vita stessa. Esistono, poi, due categorie di novelli Stakhanov: chi è costretto a lavorare molto per mantenere un tenore di vita accettabile e, su di un altro filo che viaggia parallelamente, chi deve, come imperativo personale, lavorare troppo. Stiamo parlando dei cosiddetti “workaholic”, i lavoratori maniacali, un disturbo ossessivo-compulsivo che si manifesta attraverso richieste auto-imposte, un’incapacità di regolare le proprie abitudini di lavoro ed eccessiva indulgenza nel lavoro fino all’esclusione delle altre principali attività della vita. E’ di un paio di giorni fa la notizia di una donna statunitense di 51 anni morta seduta alla sua scrivania. I suoi colleghi la ricordano così: “Lavorava sempre, senza un attimo di pausa”. Non dovremmo, secondo voi, essere in grado di vivere lavorando la metà del tempo, per poter invece lasciare spazio a tutti gli altri aspetti della nostra vita? Insomma, lavoriamo per vivere o … viviamo per lavorare?